“Insieme non c'è niente che non possiamo fare”
raccontava Manitonquat, capo politico e spirituale della tribù nativa dei Wampanoag.
Parole, queste, tutt'altro che scontate.
Perché la solitudine, o meglio, la percezione di essere soli, serpeggia ovunque nella società umana. È una delle forme del nostro tempo, questa solitudine.
Ed è così, sembra, che ci scopriamo individualisti. Esseri individuali motivati dalla convinzione che il bello e il cattivo tempo del mondo dipendano da noi. Sentiamo di potercela fare da soli. Sentiamo di poter fare a meno dell'umanità che c'è intorno. Ci illudiamo. Rimuoviamo l'altro dai nostri progetti, dai nostri orizzonti: quel che realizziamo ha come unica destinazione noi stessi.
Intanto, sotto la crosta di questa credenza, qualcosa si muove.
Fa rumore, batte i piedi, strilla. Soprattutto quando quella credenza inizia a mostrare le sue crepe. E allora eccolo lì, quel qualcosa.
È il bisogno dell'altro. Un bisogno che, una volta rimosso, non può fare altro che ritornare. Perché da soli, qualche passo, lo possiamo anche muovere: ma è insieme che si va lontano.
Solitudine e individualismo, due facce della medesima moneta. Una buona moneta, forse, per mettersi in tasca una bella dose di infelicità.
Nella Comune Tempo di Vivere proviamo a invertire la rotta di questo pensiero. Stando insieme, realizziamo un elegante sabotaggio. Perché nessuno è realmente solo. Lo sappiamo, ne abbiamo fatto esperienza.
Ogni giorno rinnoviamo la meraviglia di una vita in comune, quella che ognuno, attraverso il proprio personale percorso, ha scelto.
Così, le parole di Manitonquat, acquistano un significato reale e tangibile. Ognuno, con i propri talenti, offre un pezzetto di sé. E tanti pezzetti insieme, ne fanno uno molto grande.
Eppure c'è dell'altro. Attraverso questo stare insieme è possibile scoprirsi, addentrarsi nelle ombre della propria persona e riconoscere quel che ci appassiona.
Qualcuno è abile nell'autoproduzione di cosmetici, altri nell'arte della cucina. Qualcuno sa come lavorare il legno, altri suonano strumenti musicali. C'è chi è esperto di relazioni umane e chi disegna. Saperi, questi, che acquistano un significato nuovo quando sono condivisi. Ed ecco un altro elemento fondamentale per realizzare il sabotaggio: la condivisione. È magico, come elemento.
Perché a condividere non si perde nulla. Ci si arricchisce.
È così che invertiamo la rotta del pensiero: ricordandoci che, attraverso la condivisione, nessuno è realmente solo. C'è una reciprocità sottile che sottintende ogni relazione tra persone.
Prenderne atto significa realizzare che, in effetti, insieme non c'è proprio nulla che non possiamo fare.
Da qualche tempo provo piacere nello scolpire il legno.
Entro nella legnaia, scelgo un tronco che altrimenti finirebbe bruciato nel fuoco, lo maneggio per qualche minuto, poi mi fiondo in falegnameria. Inizio a scortecciarlo con una raspa. Inizio a conoscerlo meglio. Dopodiché inizio a scolpirlo. Dopo qualche minuto inizio a intravederci un volto.
E allora continuo a scolpire fino a quando, quel volto, è lì sotto ai miei occhi.
Per me, tutto questo, suona come un'enorme assurdità: non ho ancora compreso come sia possibile che un volto possa emergere da un tronco.
Quando qualcuno mi chiede di raccontare quel che faccio, non so cosa rispondere. Non ho una spiegazione da offrire. Qualche volta ci provo anche a formulare una risposta ma, il più delle volte, sento che sto comunicando un mucchio di sciocchezze.
Eppure chi lo avrebbe mai detto? Chi lo avrebbe mai detto che proprio io sarei stato capace di scolpire? Ho sempre creduto che la manualità mi fosse estranea. Era solo una credenza, tutto qui.
E una credenza è vera fino a quando te la senti di crederci. Quando smetti di crederci la disattivi, insomma.
Com'è iniziata questa storia del lavorare il legno? Osservando chi già lo scolpiva. Guardi un giorno, guardi due, e al terzo ti metti dietro anche tu.
È andata così. Ricordo la prima volta. Ero come in un'altra dimensione, mentre maneggiavo quel primo pezzo. Era lo spirito che abitava il legno a suggerirmi cosa fare. Era lui che mi indicava dove battere lo scalpello. È strano, per me, tutto questo. Per parecchio tempo ho accettato solo quel che potevo razionalmente spiegare. Ma quell'esperienza, invece, non la spieghi. Non appartiene alla sfera della razionalità.
Fatto sta che il primo volto che ho avuto l'occasione di liberare dal legno, aveva un'espressione spaventata.
Quel volto aveva paura. Proprio come me.
Tronco dopo tronco ho iniziato a parlarci. Così, un giorno, quella domanda sono stato costretto a pormela: chi stava scolpendo chi? Quel che veniva alla luce dal legno rispecchiava, il più delle volte, l'emozione e lo stato d'animo nascosti nel mio cuore.
È magico, tutto questo. È magico scoprire che, per far emergere un'emozione, è necessario togliere qualcosa. Proprio come quei tronchi: prendono forma solo se hai il coraggio di togliere.
Tutta questa storia è diventata la mia personale metafora della vita comunitaria: una bellissima occasione di crescita che si realizza quando ti decidi a lasciare andare qualcosa.
Imparare significa questo, per me, ad oggi: disimparare.
E allora la sollevo nuovamente, quella domanda: chi sta scolpendo chi?
Non ho fretta di rispondere. Non voglio nemmeno dedicarci troppo tempo. Significherebbe mettermi ancora una volta alla ricerca di una spiegazione.
Per il momento mi godo la magia del vedere un'emozione che emerge, consapevole che insieme non c'è nulla che non possiamo fare.
Lascia un commento...
File dei Termini e Condizioni
Sottoscrivi
Report